Milano, fine giugno, in un pomeriggio terribilmente caldo, vado a trovare Daniele Girardi nel suo studio, la via porta il nome di un famoso esploratore e lui mi dice che niente è per caso con quel tono fatalista che solo chi viaggia e trascorre molto tempo a contatto con la natura più vera riesce ad avere. Per raggiungere lo studio, situato in un ex rifugio della Seconda Guerra Mondiale, dobbiamo seguire delle enormi frecce blu ed io mentre mi sento immersa in questo itinerario, penso che veramente non esiste nulla di fortuito, che solo un artista come lui in una città come Milano poteva rifugiarsi in un luogo così lontano da tutto e con una specie di percorso da seguire per arrivarci. Vi entro e ne rimango affascinata, è il rifugio di un esploratore, corde da montagna, fotografie di luoghi lontani, incontaminati, selvaggi e solitari, mi racconta di viaggi attraverso l’ignoto alla ricerca della wilderness, questo è il fulcro del lavoro di Daniele Girardi, artista che si è allontanato dalla società del possesso,  ritrovando nel tempo l’unico bene prezioso che l’uomo possa avere.

 

La tua arte è un’immersione diretta nella natura incontaminata e libera, lo si percepisce osservando le tue opere, com’è iniziato tutto..

Mi ha sempre affascinato il mondo naturale, anche nei miei lavori precedenti e sono sempre stato attirato dall’idea del viaggio; il concetto di natura vicina all’uomo non mi bastava più e per questo ho iniziato ad indagare questo mondo, ne ho sentito la necessità interiore e così è iniziata la mia immersione totale nella natura, lentamente in luoghi più estremi. Le prime volte mi recavo in Val Grande qui in Italia, poi ho sentito il bisogno di cercare quell’ideale che rispecchiava sempre di più il mio immaginario di natura, di solitudine e di spazio, là dove l’uomo rappresenta solamente un piccolo tassello rispetto all’ambiente che lo circonda, è stato allora che ho iniziato a valutare i paesi del Nord Europa. In me è scaturita proprio la necessità di andare a scoprire una dimensione di questo tipo, che gradualmente da esperienza si trasforma in atto performativo.

 

Vuoi approfondire la tua ricerca raccontandomi la filosofia che si cela dietro …

Esiste anche una causale sovversiva, rifugiarsi nei boschi implica una disobbedienza a delle logiche della società, che impongono uno standard di beni di consumo e uno stile di vita di un certo tipo basato sul consumismo. Io ho cercato questa via per allontanarmi da questo meccanismo, per ritrovare la libertà legata al concetto di tempo e perché ho voluto dedicarmi alla ricerca e per questa c’è bisogno di autonomia e spazio, senza essere soggiogato dalle regole ferree della contemporaneità, la mia indagine è esplorazione concreta.

 

Dove ti porta dal punto di vista artistico questa tua immersione totale nella natura, mi puoi descrivere la tua poetica?

La mia poetica è una ricerca metaforica dell’incognita. Indago l’indefinito cioè quel punto di domanda che mi porta poi ad arrivare a delle cose che non pensavo e non m’immaginavo. Nel mondo della natura l’ambiguo è una parte fondamentale, la natura è equivoca non ragiona ortogonalmente, non c’è niente di lineare in essa ed è così anche il mio pensiero quando lavoro sulle opere, cerco l’inafferrabile, che è anche una sorta di caos a cui provo a dare un ordine e un significato. Per queste ragioni nella mia poetica ci sono sempre dei ponti e delle connessioni che individuo e poi creo, in essa riporto l’esplorazione sia fisica e morfologica del territorio, sia nel campo del linguaggio visivo. Nella mia arte è fondamentale l’idea di flusso, il concetto di andare, il mio non è mai un arrivo, ma sempre una dimensione di passaggio; non considero mai un lavoro una meta, ma una tappa, un tassello di un mosaico.

 

Qual è il tuo rapporto tra arte e natura?

Il dialogo con la natura è quando ci vado, quello che sto facendo, il mio lavoro, la mia opera si concretizza nel momento stesso in cui sono nella natura, tutto il resto è una sorta di documentazione sensibile, documentazione filtrata dall’esperienza.

 

In Cronache Selvatiche la mostra che attualmente è esposta da Otto Zoo arte contemporanea hai collocato al centro della galleria una grande istallazione rappresentante una sorta di ponte, costruito con legni grezzi su cui poggiano alcuni reperti dei tuoi viaggi, me ne vuoi parlare?

Quest’installazione è l’idea di una struttura provvisoria, di un ponte, di una passerella, ho voluto costruire un lavoro allegorico con molteplici significati in cui risalta il concetto di un collegamento, di un passaggio, di un trascorrere. Per me è molto importante che si percepisca l’autenticità di questo intervento, in essa si rispecchia il mio vissuto, io stesso l’ho abbozzata diverse volte per riuscire a camminare in quei territori molto paludosi in cui si sprofondava e in quel momento mi era necessario costruirla, poi decontestualizzata e riportata in uno spazio altro, gli ho dato una valenza di scultura, d’installazione, perché ci sono dei lavori proprio plastici in questa struttura.

Con questo lavoro, nella sua semplicità, rimando ad una suggestione, legata a quei momenti che ho vissuto, ai territori che ho attraversato e questo lo posso fare con una foto o con uno Sketch book, ma secondo me in modo più toccante e incisivo con questo lavoro.

E’ importante capire che quelle che realizzo non sono mai installazioni di natura, il ponte non lo crea la natura, ma l’uomo. Io riporto quello che ho dovuto costruire o vivere, però con la mano dell’uomo nella natura. Ho voluto poi disseminare quest’installazione di vari oggetti, ognuno di essi ricorda qualcosa: una fermata, oppure qualche visione, che però non è mai troppo descrittiva. Ci sono anche degli angoli morti a cui ho lavorato molto, angoli leggermente nascosti, piccoli particolari che si devono cercare, scoprire.

Nell’installazione mi piaceva l’idea di partire dal basso per farla poi crescere, per dare movimento, costruendo una serie di passaggi e farla ritornare ad una dimensione più vicina alla terra. Dentro ci sono piccole iscrizioni, oppure altri piccoli particolari, come delle scritte con il carboncino con delle coordinate, dei calchi, che simboleggiano una sorta d’identità del percorso, per me significa esserci stato. Un dettaglio importante è una targa vecchissima, usurata, che avevo trovato sul cammino, questa mi riconduceva all’idea dell’identificazione della scultura perché nell’immagine rappresentata mi è sembrato di vederci raffigurate l’icona o il suo simbolo.

OZ_Project-Room_Daniele-Girardi-Cronache-Selvatiche-installation-view.-Courtesy-Otto-Zoo

Alcune delle fotografie in mostra fanno parte di un’indagine fotografica particolare..

Sì, ultimamente sto facendo un’indagine riguardante la fotografia con la macchina usa e getta, è una scelta un po’ contro corrente rispetto al digitale, attuata innanzi tutto per andare oltre il concetto di deserto digitale che ci travolgerà tra un po’ di tempo, tutto sarà un dato e non rimarrà niente, i nostri documenti finiranno in un buco nero. La tecnologia viaggia troppo velocemente, ciò che possediamo deve essere stampato, è così che il mondo ha sempre funzionato in tutta la sua storia, attraverso testimonianze cartacee, per esempio il file che stiamo osservando ora, non si leggerà più tra cent’anni, sarà troppo vecchio per essere codificato. Da questo ragionamento scaturisce la decisione di passare alla macchina fotografica usa e getta, essa impone di stampare e anche una scelta quando si scatta, mentre il digitale rimanda sempre a un’idea d’infinito. Invece con questo tipo di macchina, così come con l’analogica, l’usa e getta è ancora più estrema, riporta a un documento meno filtrato, non artefatto, poetico. Due immagini in mostra sono legate a questa ricerca.

OZ_Daniele-GirardiNorth_Way-archivio-Finlandia-2016Courtesy-Otto-Zoo.

Sono esposti anche degli Sketch books, un lavoro che ha avuto un’ampia evoluzione, me ne parli?

Lavorando con questi oggetti lo scopo è un po’ quello di dar loro un valore che è imprescindibile dal loro uso. Questa è la ragione per cui nascono molto disinibiti e liberi, perché non li considero scultura, anche se poi magari la diventano, perché vengono decontestualizzati, in quanto se collocati in un posto diverso ne prendono l’idea, però la loro potenza è nell’essere selvaggi, la loro bellezza è quella.

Per esempio nello Sketch book aperto esposto in galleria c’è il caos, ma si percepisce anche la ricerca di una forma, i fogli sembrano svolazzanti, quest’opera non è congelata ed è presente anche un dialogo tra una parte naturale del legno e la carta che comunque è un manufatto dell’uomo e da questo legame scaturisce un’entità estetica.

Gli Sketch books sono un tentativo di dialogo, nascono liberi, perché in quello che faccio non c’è mai un cliché, tutto si sviluppa strada facendo. Questa ricerca ad esempio è iniziata con le agende abbandonate, che poi si sono sviluppate con un’immagine, la quale a sua volta si è trasformata nello sviluppo dei fogli aperti che ci introducono in un altro mondo, in cui non esiste più un’immagine fissa ma più in un’astrazione quasi di quest’idea. Da qui sono arrivato alla costruzione delle installazioni che sono per me poi il resoconto più tangibile e anche più vero del lavoro.

OZ_Daniele-Girardi-Sketch-wild-book-N°3_017-2017-wood-mixed-media-on-moleskine-130×100-cm.-Courtesy-Otto-Zoo.

Qual è il legame tra la wilderness e il Sublime?

Io cerco il Sublime nella tipologia di natura che vivo, nella wilderness domina il Sublime, perciò boschi oscuri, canyon, vallate, terreni paludosi, foreste labirintiche; questi sono tutti codici che riportano all’idea di Sublime, la natura è questo posto orrido dove però pulsa la vita e l’uomo ne è attratto e contemporaneamente respinto. Il concetto equivale a quello della paura, essa ci porta ad essere molto più vigili e consapevoli, sentimenti profondi come la paura così come il dolore ci fanno divenire. Il Sublime in questa dimensione è un laboratorio a cielo aperto.

 

Cos’è la wilderness?

La wilderness sono quei luoghi dove l’uomo non ha ancora radicato la sua presenza o la sua identità, dove non esiste ogni attività dell’uomo. Qui in Italia si sono create zone wilderness , perché nonostante tutte le nostre montagne siano sempre state abitate, nel dopoguerra sono state abbandonate; l’uomo non riusciva più a vivervi e perciò si è creato questo ambiente nato dall’abbandono. Nelle zone wilderness in Nord Europa invece l’uomo non si è mai insediato probabilmente perché si tratta di una natura diversa sfavorevole e insidiosa.

 

OZ_Daniele-Girardi-Oltrefiume-2013-Courtesy-Otto-Zoo

Come vedi la nostra società in relazione all’immensità della natura ?

La risposta è già nel modo in cui sto facendo ricerca; un contrapporsi a un mondo così artefatto soprattutto eccessivamente veloce, abbiamo perso il concetto di tempo, di conseguenza la possibilità di approfondire, non ci si può più immergere in ciò che reputiamo importante, tutto rimane una visione superficiale, c’è sempre quella convulsione di voler fare e vedere tanto. Questo concetto è molto evidente anche a livello di immagini, si consumano tutte senza neanche osservarle, ci soffermiamo poco su una cosa e questa mia direzione è stata un modo per tutelarmi da tutto ciò. Sono consapevole della situazione e la accetto, non sono un nostalgico, anche perché sfrutto tutti i mezzi che la tecnologia mi offre, però li utilizzo senza farmi prevaricare, sono solo dei mezzi non sono il fine. Il fine è andare in profondità. Sylvain Thesson, uno scrittore francese, ha scritto un libro molto interessante, intitolato Nelle foreste siberiane, Thesson è rimasto circa sei mesi in una capanna in Siberia, in questo libro sottolinea più l’idea di libertà che di potenza, dice: “ l’uomo libero possiede il tempo. L’uomo che controlla lo spazio è solo potente.”

La potenza è un po’ il richiamo di questa società: essere dominanti, fruire di tutto senza distinzioni, tutto ciò per me non ha molto senso soprattutto questa concezione di possesso, mentre penso che sia il tempo il bene migliore che possiamo avere.

Leda Lunghi

OZ_Daniele-Girardi-detail-installation-view-Cronache-Selvatiche.-Courtesy-Otto-Zoo.