Lisa Batacchi estende la sua ricerca artistica tra tradizioni ritualità e lentezza, nella sua narrazione il tempo scorre sul fluire degli avvenimenti che giungono a noi come un eco remoto narrandoci di quelle popolazioni del sud est asiatico tra Cina e Mongolia, lontane dai concetti frenetici di globalizzazione, dove le memorie e le consuetudini hanno ancora una forte rilevanza, la storia è trasmessa oralmente attraverso canti e rituali come il ricamo. E’ questo il mondo in cui ci introduce l’artista facendoci esplorare realtà lontane con un’attenta analisi sociale e culturale di quei territori.

 

Il tuo è un lavoro che si è sviluppato in più tempi, per produrlo hai vissuto per un lungo periodo in diversi luoghi del sud est asiatico tra Cina, Mongolia, passando molto tempo specialmente con la tribù dei Miao, etnia di minoranza, in una provincia della Cina sud-occidentale. Il tuo scopo è quello di omaggiare e mettere in risalto la tradizione e la ritualità, criticando la nostra cultura della globalizzazione. Me ne vuoi parlare?

 

La ricerca in divenire che sto portando avanti con il mio più recente progetto “The time of discretion”, è nata da indagini sulle tecniche tradizionali tessili, e di come alcune siano scomparse sia in Italia che in altri paesi. Da qui la volontà di ricercare specifiche aree del mondo in cui certe tradizioni sono ancora vive a favore di una dimensione estatica di temporanea scomparsa dai ritmi frenetici di oggi. Allo stesso modo vivere e imparare con “discrezione” certe tecniche artigianali tessili con una comunità permette di rintracciare certi loro elementi culturali filosofico-religiosi e storico-sociali.

Il primo capitolo di “The time of discretion” ha iniziato a prendere forma viaggiando una prima volta in Cina, Inner Mongolia e Mongolia fra luglio-settembre 2016 invitata a realizzare un’opera per la 4’edizione di Land Art Mongolia Biennale a cura di Valentina Gioia Levy.

La spinta che mi ha mossa a tornare la seconda volta (dai primi di marzo ai primi di maggio 2017 nella Contea Qiandongnan nella provincia di Guizhou ), in una regione cinese così lontana dalla nostra cultura, abitudini e comodità, è stata quella di voler approfondire il mio incontro con la tribù dei Miao, in particolare con un gruppo etnico chiamato Hmong( fra cui le mie amiche, ormai sorelle, Lala, Napoon, Chun Yen). Da loro ho imparato, nonostante l’impossibilità di comunicare verbalmente se non a gesti, sorrisi, canti e a tanta voglia e curiosità di contatto e di scambio interculturale, a praticare la tecnica della cera calda su tessuto e la colorazione naturale di Indigo. Nei villaggi si respira ancora un’umanità ricca di spiritualità, socialità, di cooperazione fra famiglie sia nel lavoro che nella vita quotidiana, e una forte volontà di resistere alla “cinesizzazione” che avanza. Infatti, la maggior parte dei Hmong non parla cinese, ma quello che più mi ha colpita è che non hanno una propria letteratura scritta. Portano avanti le loro tradizioni oralmente con i canti o piuttosto con rituali come il ricamo, la pratica sciamanica e con un rapporto ancestrale con la pianta dell’Indigo che cresce sulle loro montagne. Un vero Hmong che si rispetti, non può non adottare certe usanze in quanto, queste sono l’unico modo per comunicare con gli antenati, che potranno garantire loro, una volta morti, la possibilità tornare al luogo di origine, ovvero la stella polare boreale.

Ad oggi il Guizhou è una prefettura autonoma dell’etnia Miao e Dong, ed è una delle province più povere della Cina dove si vive ancora per lo più lontani dalla globalizzazione che si è espansa rapidamente in quasi tutto il resto del Paese.

Per cercare di non disperdere la loro cultura millenaria ho iniziato a collaborare con due ONG cinesi che si occupano di progetti a tutela e divulgazione della cultura Miao, una a Shanghai e l’altra a Guiyang e spero presto di sviluppare alcune idee con loro.

Adesso che sono rientrata in Italia continuo la mia serie di disegni a cera su tessuto di seta grezza ma ho ancora molto da dire e da fare anche da qui. Inizierò presto a mettere mano a un mio primo lungometraggio, che documenterà questi ultimi cinque mesi di viaggio e a una pubblicazione/libro d’artista in edizione limitata.

 

Vuoi raccontarmi l’importanza della spiritualità nel tuo lavoro?

 

Ci sono stati in passato alcuni momenti chiave della mia vita che mi hanno formata e accompagnata a diventare la donna che sono oggi e a sviluppare un rapporto personale con componenti nel mio lavoro anche di forte respiro spirituale. Come brevi flash scorrono davanti a me i ricordi degli otto anni intensi di studio di discipline come il Tai Ji Quan, Pa Kua, Qi Gong e di medicina tradizionale cinese; un viaggio nel 2004 in una Cambogia non ancora occidentalizzata, autentica di meravigliosi sorrisi; per poi sentire un richiamo, come un’epifania, che mi ha portata a lasciare il mio lavoro di stilista da Vivienne Westwood a Londra e a ritrovarmi così qualche anno dopo a laurearmi all’Accademia di Belle Arti di Firenze con una tesi sul Taoismo nell’arte contemporanea.

Ho accennato rapidamente a questi quattro momenti in quanto sento che quest’ultimo progetto a lungo termine “The time of discretion” parte dal mio passato, mi racconta da molte sfaccettature, facendo confluire l’ energia e la spiritualità che sono in me.

Tutto questo mi porta oggi a ritrovare la stessa dimensione senza tempo che ho vissuto in passato, di amore e di ascolto dello scorrere della vita e assorta da canti e rituali dei luoghi che ho recentemente visitato, guidata da intuizioni più complesse, iniziai a comporre disegni che poi ho ingrandito e riportato con la tecnica della cera calda su tessuti di seta grezza in grandi formati, realizzando dei bozzetti per strutture installative-performative site specific in luoghi come Dariganga, a sud est del deserto di Gobi o altri futuri luoghi da esplorare.

Imbattersi nei Hmong o nella popolazione Mongola mi ha portata infine a rendere realtà molte delle mie visioni, passioni e ricerche spirituali più interiori. E’ stata una fortuna? Più proseguo nelle mie ricerche e nei miei studi, più capisco che niente anche qui è stato solo un caso.

Lo scorso anno per “Catching the axis. Between sky and earth” la 4’edizione di Land Art Mongolia Biennale, ricercavo un punto cromatico preciso di blu che potesse rappresentare una mia idea astratta di asse immaginario fra cielo e terra. Ho investigato a lungo sulla possibilità di poter trovare una tribù in Mongolia che lavorasse a batik il colore Indigo naturale ma ho ricevuto piuttosto informazioni da una conoscente che la mia idea si poteva realizzare piuttosto nel sud della Cina con il gruppo etnico dei Miao, in particolare con i Hmong.

Scoprii solo successivamente, che l’origine dei Hmong andava molto indietro nel tempo, forse fino all’ultima era glaciale e che da tradizioni orali, leggende e rituali funebri, si pensa che le loro terre di origine siano zone di alta latitudine come la Siberia, il nord della Mongolia e gli angoli più a nord del territorio cinese. Gli studiosi teorizzano che i Hmong siano arrivati nell’odierna Cina circa nel 3000 a.c. prima ancora dell’etnia cinese Han. Nei secoli guerre e persecuzioni da parte degli Han, hanno portato i Hmong a risiedere, dopo vari flussi migratori, nel Guizhou come anche in altre nazioni del sud est asiatico.

Ho accennato rapidamente a tutto questo, perché verso la fine del mio secondo viaggio, conversando con Xiao Mei, una giornalista e fondatrice di una ONG di Guiyang, ho chiuso un primo cerchio importante con un bel colpo di scena!

Ovvero, anche se fra le due etnie la convivenza non è mai stata pacifica, i Hmong nei millenni passati hanno assorbito la cultura taoista proprio dai cinesi Han.

E così dopo la rivoluzione culturale di Mao Zedong, la Cina ha perso completamente ogni rapporto con le proprie antiche tradizioni e credenze, e la cultura taoista si può oggi giorno ricercare ancora, vivissima come millenni fa, piuttosto in regioni lontane in cui sono state confinate tutte le etnie non considerate cinesi come anche, in maniera meno evidente, ad Hong Kong e a Taiwan in quanto ai tempi di Mao erano colonie inglesi e giapponesi.

Queste sono alcune delle tante coincidenze riscontrate durante i mesi che ho passato in Asia per costruire il primo capitolo di “The time of discretion” in cui, partendo proprio dal mio personale rapporto spirituale con il taoismo, ho potuto approfondire radici storico, sociali, antropologiche, filosofiche, allargando così prospettive e pensieri tra paesi, confini politici e ideologie.

Il rito ha una posizione preponderante nella tua opera artistica, così come elementi con un patrimonio culturale molto antico come l’I-Ching, mi vuoi spiegare i loro significati ed in che modo sono intervenuti nell’opera, dove ti hanno portata?

 

Per mia abitudine consulto l’oracolo dell’I-Ching sia per me, che per amici o per conoscenti se mi viene richiesto. E’ un’abitudine e un confronto con questo testo antico cinese che ho iniziato nel 2003 e che da allora non ho più lasciato in quanto è un mezzo che mi aiuta a mettere gli accadimenti in relazione e a proiettare nella nostra quotidianità idee di possibili mutamenti.

Così prima di partire un anno fa per l’Inner Mongolia, Cina e Mongolia, avendo ancora pochi indizi da seguire per il mio nascente progetto “The time of discretion”, ho chiesto un consiglio all’oracolo.

 

Per la prima volta mi sarei finalmente potuta riferire a conoscenze antiche cinesi come l’I-Ching per scoprire, grazie a queste, il futuro del nostro pianeta a partire proprio dalle condizioni socio-politiche attuali di una grande potenza economica come la Repubblica Popolare Cinese che sta perdendo d’altra parte ogni legame con il proprio passato e identità.

Ho posto dunque all’Oracolo una domanda in inglese, quanto segue:

 

“Dear Oracle, will human beings, during this century, be able to decrease from this accelerating materialism freeing themselves from the chains of the capitalistic major vision of our time reconnecting with predestination of our life and of our planet?”

(Caro Oracolo, gli esseri umani, durante questo secolo, riusciranno a decrescere da questo materialismo che accelera, liberando se stessi dalle catene di una visione capitalistica del nostro tempo e a riconnettersi con la predestinazione della propria vita e del nostro pianeta?”)

Dal responso dell’I-Ching ho potuto visualizzare alcuni elementi chiave che poi mi hanno accompagnata e guidata nel mio viaggio, in cerca di coincidenze con certe indicazioni dell’antico testo taoista.

Mi sono trovata così ad assistere e a praticare rituali sciamanici, sia della popolazione Hmong che Mongola, e ho approfondito alcuni culti locali, rappresentazioni astrologiche antiche buddiste tibetane in Inner Mongolia; ho potuto fare un’analisi sui molti cambiamenti culturali che i mongoli risiedenti in Inner Mongolia hanno avuto negli ultimi 70 anni di governo cinese rispetto al loro cultura nomade. Successivamente, ho unito in un disegno le tante componenti trovate, le quali avevano delle corrispondenze con il responso datomi dall’Oracolo cinese, e che sono andate poi a formare la grande tenda-sipario utilizzata per la performance a Dariganga nei pressi del deserto di Gobi per la Land Art Mongolia Biennale, 2016.

 

Nel mio secondo viaggio (avvenuto recentetemente), partendo sempre dalla stessa mia domanda posta all’Oracolo cinese e dal responso multiplo che avevo ricevuto (sentenza ed avvenire), ho voluto invece creare un’opera di 200 cm x 140 cm a rappresentare in forma astratta sia il “dialogo” avvenuto di domanda-risposta fra me e l’I-Ching rispetto al futuro del nostro pianeta, sia le energie cosmiche di causa-effetto che ci gravitano intorno. Quest’ultima opera è diventata quindi una prefazione a quella realizzata un anno prima e ha dato inizio a una serie di altre opere batik su seta grezza che sto ancora portando avanti.

 

Vuoi parlarmi della grande tenda che hai prodotto con la tribù dei Miao, dei significati che racchiude, le allegorie?

 

Come ho già iniziato a spiegare nella domanda precedente, prima di pianificare il mio itinerario, ho consultato l’I-Ching per avere delle indicazioni da seguire rispetto al mio progetto “The time of discretion” e dalle risposte che ho ricevuto mi sono fatta guidare da alcune suggestioni che ne sono derivate.

Il responso descrive una mia interpretazione riguardo a un momento per il mondo oggi difficile in cui non si può auspicare a grandi cambiamenti ma che comunque una pioggia liberatoria porterà a nutrire con nuovi semi sulla terra che in futuro potranno germogliare (Esagramma 40); e ancora, che il mondo del nostro secolo potrà risorgere con un’altra aura se l’umanità riuscirà a progredire nella società con un nuovo equilibrio. Per fare ciò suggerisce all’essere umano di ricercare l’energia creativa spirituale del cavallo che rappresenta la spinta dell’ego maschile, bilanciata dal carattere femminile di devozione della mucca e dalla sua energia spaziale che potrà nutrire il nostro pianeta.

 

Il mio obbiettivo è stato, da queste premesse, di realizzare una tenda di 490 cm x 320 cm con al centro il disegno del mio animale astrale, un cavallo maschio con le mammelle di mucca.

In Asia molte decisioni politiche venivano prese, almeno fino a qualche decennio fa, facendo previsioni sul futuro osservando l’astrologia e così il mio cavallo-mucca immerso/a fra stelle e costellazioni narra con la sua corsa sia “spirituale” che “spaziale” il fluire della nostra storia, passata, presente e future, che porta con sé un messaggio di speranza come anche di attenzione ai pericoli.

 

La tenda, durante la 4’edizione Land Art Mongolia Biennale, è stata montata su una struttura in legno e spostata in aree specifiche di Dariganga, a sud est del deserto di Gobi, in particolare aprendo lo scenario di fronte all’area della sacra montagna di Altan Ovoo dove si può pregare per far esaudire quattro desideri personali; così durante una processione le suggestioni segrete dei partecipanti sono state liberate nello spazio circostante.

 

Solo recentemente a distanza di quasi otto mesi, durante il mio ultimo viaggio, ho avuto la sorpresa di essere contattata da una giornalista e ricercatrice che mi ha invitata a risiedere per alcuni giorni presso la sua ONG. Ho insieme a lei discusso del mio lavoro e, con moltissima emozione, ho avuto conferma di moltissime mie intuizioni, del legame che i Hmong hanno con credenze animiste, che ho potuto ritrovare con pari intensità e simbologie in Mongolia.

Xiao Mei, la giornalista, mi ha fatto scoprire infine un’antichissima rappresentazione tessile Hmong chiamata “stampa di cavallo” che non è figurativa ma astratta e riconduce a un legame forte non solo con la filosofia taoista ma anche con l’astrologia. Il cavallo per i Hmong è l’animale che ricongiunge i defunti con i propri antenati, come anche per la cultura mongola antica la cavalla è immaginata come un’eroina che corre ai limiti fra la vita e la morte sul confine d’orato dell’universo.

 

 

A Venezia nel giardino di Palazzo Rossini presso il Padigione Arts & Globalization il 19 maggio scorso hai presentato una performance a cura di Valentina Gioia Levy, intitolata “The time of discretion. Vanishing acts #05 a cui è seguito un talk. Me ne vuoi parlare?

 

Il lavoro istituito dietro a questa recente performance è partito dalla volontà di documentare tradizioni antiche, come anche di registrare forme di vita e vitalità in alcune zone del mondo più remote che resistono a una globalizzazione che, pur avvicinandosi, non è ancora sopraggiunta del tutto.

Questo mi ha portata ad una ricerca di suoni, canzoni, rituali che ho raccolto durante i miei viaggi tra Cina e Mongolia.

L’idea della performance si basa sull’impiego di elementi semplici sia di utilizzo quotidiano Hmong che di cultura Mongola (sgabello, cestino, cappello, filati tinti con il colore Indigo, riso, latte, oggetto sciamanico) e di cinque volontari che reinterpretano questi rituali.

Le azioni dei performer sono divise in nove momenti in cui emergono suoni e silenzi, azioni, pause, gesti e movimenti che ho pensato specifici per ognuno. La musica è stata assemblata da me in cinque brani e ciascuno di questi, ripetuto in loop, è diventato un bellissimo mantra: il canto di un venditore di frutta e verdura in un villaggio, a seguire una donna Hmong che canta a un’amica per rispondere a una sua domanda; uno shiamano Hmong in un villaggio che esegue un rituale di guarigione; un rituale di una sciamana Mongola nel deserto di Gobi; donne Hmong che cantano mentre disegnano con la cera calda su tessuto. Tutti ritratti di un’autentica ancestrale spiritualità.

L’obbiettivo di questa performance è stato quello di estraniare dal tempo e dallo spazio i cinque performer, fra cui io stessa e il pubblico.

A seguito della perfomance, dopo un’introduzione di Rikke Jørgensen, direttrice artistica del Padiglione Arts & Globalization a Palazzo Rossini, ho discusso insieme ad un’altra artista Anna Mapoubi e a Valentina Gioia Levy in un talk dal titolo “Practicing Slowness and Disappearance from Capitalist Ideology. On Contemporary Art Practice, Textile and Embroideries in Anthropological Contexts” approfondendo con gli spettatori il nostro lavoro, ricerca artistica e curatoriale.

Leda Lunghi