Entrare al Pac alla mostra di Teresa Margolles significa scendere nei gironi più profondi dell’Inferno dantesco, attraversando l’arte e l’estetica del terrore con cui l’artista descrive la buia crudeltà della nostra società malata. Con Ya Basta Hijos de Puta, a cura di Diego Sileo, essa descrive con un forte impatto emotivo l’ingiustizia, la perfidia, la violenza e l’emarginazione che la nostra collettività è in grado di creare. Il titolo tradotto: “Ora basta figli di puttana ” evoca, infatti una scritta che i vari trafficanti di droga incidono per minacciarsi reciprocamente sui corpi morti e ingiuriati delle rispettive donne. La mostra divisa in stanze, in mondi, ci conduce nell’inquietudine di azioni impietose dove la brutalità è costantemente presente, sia come narrazione sia come confronto e rapporto con i fruitori, testimoni di un mondo asettico, insensibili ad essa, nasce così la ricerca di riscatto per le vittime e la società stessa, sperando che tramite l’arte, il racconto del dolore e della sopraffazione le coscienze vengano colpite.
Con questa personale il Pac entra nel pieno dell’attualità, in una realtà senza censure e senza limiti, ponendo l’attenzione sui temi più amari e dolorosi della nostra contemporaneità, tra cui il femminicidio. L’artista racconta attraverso la sua poetica e i suoi lunghi soggiorni a Ciudad Juárez, città di confine tra il Nord del Messico e gli Stati Uniti, dove le donne sono tra le maggiori vittime della guerra del narcotraffico e per questo motivo si avvale della triste definizione di “città delle donne morte”. L’artista espone otto pensiline prelevate ai bordi della città, su di essi i volti e gli annunci delle vittime dissolte nel nulla, le ultime vane ricerche dei familiari, che vi hanno affissato una fotografia, una frase, richieste d’aiuto che vengono vanificate lentamente dagli agenti atmosferici, i fogli sono strappati, in parte cancellati, così come le vite di queste donne sparite per sempre e le speranze dei loro famigliari lacerate così come la pioggia lentamente vanifica un foglio di carta.
L’artista racconta un’estetica del dolore e del terrore, in ogni stanza s’incontra un girone differente e talvolta sembra di scendere sempre più in basso, come se la crudeltà della società non avesse limiti ed è così che incontriamo Karla, Hilario Reyes Gallegos, una prostituta transessuale picchiata a morte; davanti alla sua fotografia un pezzo di cemento reperito sul luogo in cui Karla è stata ammazzata, appeso nella stanza il certificato di morte, quasi a voler dare valore a una fine che nessuno ha considerato. Una voce fuoricampo, quella di Ivonne racconta come Karla è stata lapidata. L’artista solleva la questione dei ” morti che non contano ” perché sull’uccisione di un transessuale o di ragazze povere non si fanno indagini, Margolles evidenzia qui l’assurda esistenza di morti di classi diverse, nasce quindi spontanea la domanda sul concetto di umanità, e sull’impunità per il razzismo riguardante un transessuale. Ogni sala è la rappresentazione, la narrazione di un mondo feroce, prevaricatore e per questo esso necessità di essere raccontato e testimoniato, perché queste visioni non si ripetano in altri luoghi. I suoi lavori raccontano la spietatezza del nostro sistema sociale malato e truculento questa narrazione è una vera e propria forma di denuncia, un atto politico che l’artista fa vivere al fruitore, a che si trova oggetto e soggetto dell’atrocità, della sofferenza e dell’ingiustizia, il suo coinvolgimento sarà totale fino a scioccarlo come è giusto che sia, perché tali gesti non si ripetano più.
Nasce così Vaporización l’indefinita realtà che sancisce e racchiude il racconto tra arte e morte. E come testimoni ci troviamo a camminare in questa coltre bianca, una coltre di lutto, creata da un vapore acqueo, di acqua disinfettata in cui sono stati immersi lenzuoli trasudanti di morte e di violenza. E’ in questo limbo, che occupa l’intera sala espositiva della parte superiore del Pac, in cui giace il silenzio cupo e lugubre dei corpi uccisi , e camminandovi attraverso cerchiamo di esplorarlo a livello sensoriale e cognitivo, percependo il silenzio della ferocia, della crudeltà e dell’ingiustizia. E sono gli stessi sentimenti torvi e profondamente veri che racconta 57 Cuerpos, un’opera minimalista, toccante e suggestiva. Quest’installazione formata da un lungo filo accomuna dei destini ingiusti, essa rappresenta il legame tra persone anonime, tra vite trasformate in morti senza nome, senza dignità, senza amore e rispetto; il filo è il residuo utilizzato dopo le autopsie per ricucire insieme i corpi delle vittime mutilate, uccise da una morte violenta e di cui nessuno ha reclamato il corpo, questo filo impregnato dei fluidi corporei, è una reliquia, metafora del lato più oscuro del genere umano.
Altra opera che rende omaggio alle vite spezzate dal sistema della globalizzazione è La Gran América, un memoriale di millequattrocento ciottoli realizzati dall’artista stessa con il fango del Rio Grande, il fiume dove centinaia di migranti che hanno cercato di valicare la frontiera tra Messico e Stati Uniti hanno perso la vita. E’ questa l’arte di Teresa Margolles un’arte che si schiera dalla parte dei poveri, degli umili, di coloro che non possono e non hanno potuto parlare, essa vuole rivendicare i loro diritti e attraverso il forte impatto emotivo e mentale e attraverso l’estetica del terrore, caratteristiche che rendono unico il suo lavoro.
Leda Lunghi
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